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philip guston |
Guston
rimasto sempre Goldstein - Organizzare un breve soggiorno a Londra è divenuto semplice e non troppo costoso, grazie alle tariffe ridotte che praticano le compagnie aeree low cost in questi mesi. Conviene allora cogliere l’opportunità e passare dalla Royal Academy of Arts per visitare la mostra “The Art of Philip Guston 1913-1980”, la prima importante retrospettiva dedicata a questo grande maestro al di fuori degli Stati Uniti. E’ infatti davvero giunto il tempo che le sue opere vengano apprezzate anche nelle nostre comunità in Europa, poiché il suo approccio alla Shoà e alle tematiche ebraiche dopo la Shoà è quanto meno interessante.
A prima vista questa mia affermazione appare
ingiustificata: l’artista, non appena si affacciò sulla ribalta
internazionale, ossia nel 1937, cambiò il cognome da Goldstein in Guston
quasi a volersi sbarazzare di un marchio troppo ebraico; e questa abiura
sembra fare il paio con il suo netto distacco da ambienti religiosi e anzi
con la sua vicinanza all’ateismo, specie nei suoi anni giovanile vissuti
da socialista impegnato.
Va
comunque subito detto che la gioventù di Guston si svolse comunque in un
contesto che induceva a mosse drammatiche e non troppo ponderate: Philip
nacque a Montreal in Canada da ebrei russi di condizioni economiche tanto
disagiate, che quando si trasferirono in California (quando lui aveva 6
anni) il padre si trovò a lavorare da spazzino. La realtà dovette
apparire allo stesso padre tanto difficile, da indurlo al suicidio appena
4 anni dopo, lasciando Philip con un’energica mame, che però non
riuscì a evitare la morte per cancrena dell’altro figlio, sette anni
dopo. Dalle ristrettezze, tuttavia, Philip riuscì ad emergere con
decisione e anzi utilizzò le sue difficoltà iniziali come motivo di
crescita; da un lato si avvicinò al credo socialista, dall’altro
sviluppò un’iconografia ripresa proprio dal mondo dei bassifondi in cui
aveva lavorato il padre e in cui lui viveva. Alla Academy of Arts sono in
mostra alcuni suoi dipinti giovanili chiaramente influenzati dalla
vicinanza a certo surrealismo di sinistra, una prossimità che emerge
particolarmente nei murali che dipinse in quegli anni per conto del
Governo USA e che si rifanno al modello di Rivera e degli artisti
comunisti messicani. Inutile sottolineare che persino allora si trovava
spesso in compagnia di nostri correligionari convinti come Philip Roth,
perché è chiaro che lui stesso gravitava abbastanza all’esterno della
sfera ebraica e il cambiamento del cognome ne è solo una riprova.
Il
Guston degli anni ’30 e primi ’40 era comunque un artista che non
aveva certo spiccato il volo: il suo vero balzo in avanti è del
dopoguerra, e la molla va ricercata soprattutto nella Shoà. Difatti è
dopo aver visto le terribile fotografie dei campi, dopo aver compreso
appieno l’immensità di quanto era accaduto, che Guston cambiò stile
abbandonando il figurativo a favore dell’astratto. Si trattò di un
cambiamento radicale, dettato anche dalla volontà di ritrarre il Male che
aveva prodotto la nostra tragedia e dall’impossibilità di farlo con il
dizionario del surrealismo. La mostra londinese propone l’opera che
segna in qualche modo quel passaggio, ossia una tela di grande impatto,
“The Tormentors” del 1946-1947, in cui su un campo nero risaltano come
una ferita alcune forme rosse e poi dei segni che ricordano il filo
spinato. Guston non tornò più indietro da quella scelta artistica e si
avvicinò decisamente all’Espressionismo Astratto e quindi ai vari
Rothko, Gottlieb, Newman. Il credo di quel movimento gli si confaceva
particolarmente, poiché invitava l’artista a riportare sulla tela le
proprie sensazioni senza alcuna mediazione e vezzo (“i primi 20 minuti
sono critici per le mie opere” ebbe a dire). E nei colpi di pennello che
dava sulla tela, senza cercare forma né soggetto apparente, si vede tutto
il sovrapporsi di mille pensieri e tensioni, ma soprattutto la volontà di
capire più a fondo ciò che muove l’animo proprio e di chi gli sta
accanto, per cogliere meglio una realtà che sfuggiva alla sua
comprensione.
Più
tardi, negli anni ’60, ne ebbe abbastanza anche dell’astrattismo e
passò a un figurativo influenzato in qualche modo dalla Pop Art. Infatti
vedo chiaro il legame fra le sue opere e il mondo dei cartoon (un po’
come Lichtenstein), adottando quindi uno stile in cui ogni oggetto diventa
un codice cifrato per comprendere il pensiero dell’artista. E nelle
opere di questo periodo emerge con tutta la sua intensità la matrice
ebraica e la memoria della Shoà di Guston, che pure erano vive nel
periodo dell’Espressionismo Astratto, ma meno evidenti. Basti infatti
pensare a quel “Painting, Smoking, Eating” in cui un uomo (l’artista
stesso?) è disteso tranquillamente sul letto a fumare e a mangiare, ma
pensa soprattutto a un mucchio di scarpe di rozza fattura. Il riferimento
era a una delle immagini più vivide che gli erano rimaste impressa dalla
Shoà, le montagne di indumenti delle nostre povere vittime che appaiono
in tante foto. Guston teneva quindi sempre a mente la nostra tragedia,
utilizzandola tuttavia come segno distintivo del disagio in genere, come
in “Couple in Bed”, in cui le difficoltà dell’uomo nel letto sono
espresse proprio dalle scarpe rozze che porta. Sono le stesse che troviamo
anche nei suoi quadri dal contenuto politico più esplicito, contro la
discriminazione razziale del Ku-Klux-Klan o contro la guerra del Vietnam,
dove il disagio che si vuole esprimere sconfina anche in altri campi e
dimostra che la sua sensibilità ebraica gli faceva vedere la vita in un
ben determinato modo. Insomma la Shoà diviene un metro per analizzare
anche il presente. E che dire del lirico “Pyramid and the Shoe” in cui
il portato della Shoà (di nuovo la scarpa) è messa a confronto con una
piramide, segno della massima cultura e del più alto livello di
perfezione formale. Ma qui giungiamo alle opere in cui richiami ai temi
biblici diventano evidenti, perché in “Pyramid and Shoe” la mente
corre al parallelo fra il Faraone e Hitler. E troviamo pure uno splendido
“Group at Sea” in cui una serie di teste senza corpo e con un occhio
solo (anche questo un ricordo delle nostre terribili tragedie) si trovano
accalcate le une sopra le altre senza scampo in mezzo al mare, o piuttosto
in mezzo al fiume. E per non lasciare dubbi sul fatto che si stava
riferendo alla mano del Signore e alla morte degli egiziani nel Mar Rosso,
Guston dipinge anche un dito che punta verso l’altro, come a dire, tutto
proviene dal Cielo.
Ma
qui passiamo all’altro aspetto veramente particolare di Guston, il suo
accomunare l’eredità artistica italiana classica con l’ebraismo.
Perché quel dito ricorda chiaramente l”Ultima Cena” di Leonardo. E
così pure in un affascinante “The Line” si vede una mano anziana e
tumefatta a cui mancano parti di dita che esce dalle nuvole e traccia
comunque una linea. Viene immediato pensare alle persecuzioni che abbiamo
subito e alla nostra capacità comunque di portare avanti il nostro
percorso (la linea proviene da lontano e non ha inizio), ma anche alle
famose mani raffigurate da Michelangiolo nella Cappella Sistina, dove si
fa riferimento al Signore che è sul punto di toccare e di dare vita ad
Adamo. E sono queste grandi opere, dal portato del tutto originale, a cui
si inchina anche la critica americana più spietata. La Shoà ha sempre rappresentato per Guston non solo un pensiero fisso, ma la molla per andare avanti, per migliorarsi, per cambiare; il ricordo non può e non deve rimanere fine a se stesso. E per dare linfa ulteriore a questa sua riflessione utilizza proprio un bagaglio tipico della cultura italiana. C’era bisogno di un ebreo americano per mostrare la forza di questo connubio?
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tratto da www.morashà.it e già pubblicato sul Bollettino della Comunità
Ebraica di Milano - |