ARCHIVIO VETRINA  

 

 

mark rothco

Mark Rothkowitz

Dipinti come drammi teatrali    

 

Quando è caduto il Muro di Berlino in Russia hanno osannato quel pittore, che più di altri ha contribuito a creare una originale arte americana nel dopoguerra, quando la guerra fredda sconfinava anche nella cultura e lui insieme a tutto l’Espressionismo Astratto erano ben visti da Mc Carthy e dai benpensanti di New York. Certo, difficile sfuggire a questa interpretazione ma va detto che Rothko è ormai universalmente considerato uno dei pilastri dell’arte del 20esimo secolo. Di strada ne ha fatta da quando all’età di dieci anni era scappato dallo shtetl lituano in cui era nato e la notorietà che ha raggiunto è tale da  indurre il sospetto che anche per lui sia scattata quella sindrome di appropriazione tipica di certo ebraismo americano. Poiché, pur osservante di formazione, Rothko quasi mai si recava in sinagoga, manteneva legami sporadici con la comunità ebraica americana, e giunse addirittura a produrre alcuni quadri con una simbologia cristiana. Eppure, stavolta, mi trovo d’accordo con chi trova importanti radici ebraiche nella sua arte. 

Il motivo non è semplicemente che si trovava in particolare consonanza di spirito e di azione con altri artisti ebrei giunti dall’Europa, anche se è certamente corretto affermarlo. In effetti è con compagni come Adolph Gottlieb o Barnett Newman e con critici come Rosenberg e Greenberg, che si trovò a importare in USA l’espressionismo europeo, creando con loro nel ’35 il gruppo “The Ten” ormai entrato nella mitologia d’oltre oceano. E fu sempre con loro che teorizzò la creazione di un rapporto fra l’artista e il pubblico basato sul trasferimento di profonde sensazioni dall’uno e l’altro; e sempre con loro ipotizzò che questo fosse possibile solo laddove l’artista riportasse nella sua opera il prodotto dei profondi moti del suo spirito. La scelta dell’astrattismo, per Rothko come per Gottlieb e altri, fu quindi una logica conseguenza del pensare che le sensazioni difficilmente prendono contorni definiti. Ecco quindi l’origine del termine Espressionismo Astratto, che contraddistingueva questo gruppo di intellettuali soprattutto ebrei.

Ma il vivere in un ambiente ebraico di per sé non ci insegna molto, perfino aggiungendo il dettaglio che Rothko insegnò a lungo in istituzioni ebraiche quali il Brooklyn Jewish Academy Centre, con il quale collaborò per oltre 23 anni.

Un primo elemento significativo è il rapporto che Rothko ebbe con la Shoah, da cui, evidentemente, rimase sconvolto. Le sue opere degli anni della guerra sono infatti diverse sia da quelle espressioniste che le precedettero sia dai tipici e famosi quadri astratti successivi. Compare una simbologia tipicamente religiosa, per lo più di ambito cristiano, cosa della quale non si dovrebbe gridare allo scandalo, considerato che perfino Chagall dipinse tele con un crocifisso appena coperto da un talit. Anzi direi che le sensazioni di profondo dolore che i due provarono furono certamente simili, con il diffondersi delle notizie del nostro popolo portato all’assassinio di massa e la difficoltà di rappresentare questi fatti con una simbologia ebraica. E il suo sentimento non troppo diverso da quello di Chagall portò anche lui a dipingere addirittura quadri con simbologia mista ebraica e cristiana, ad esempio un’Ultima Cena in cui si trovano i rabbini di Bené Berak.

Volgiamo però oltre lo sguardo verso le sue opere più tipiche, quelle del periodo successivo alla guerra, in cui dipingeva su tele di notevoli dimensioni delle specie di grandi losanghe dal colore intenso su uno sfondo di altro colore contrastante. Visto che secondo il critico Greenberg, questi quadri, come gli altri degli espressionisti astratti, non sono che “la traduzione di miti e di archetipi venuti dal fondo dei tempi”, se non vi trovassimo degli elementi ebraici dovremmo concludere che poco di ebraico vi era in Rothko in genere. E’ necessario scendere quindi nel messaggio che l’artista ci vuole trasmettere, e non limitarsi, come pure alcuni fanno, a sottolineare che l’ebraismo in Rothko emerge già nel fatto di avere scelto la strada dell’astrazione, mettendosi così al riparo dalle indicazioni contenute nel 2° comandamento (“Non ti farai immagine”). Nell’addentrarmi nell’analisi, non credo di attribuire a delle forme di colore più importanza di quanto ne abbiano, ma in quest’analisi seguo semplicemente le parole di Rothko, che diceva dei suoi quadri “pictures are dramas, the shapes are perfomers” a dire che le sue tele sono lì a raccontarci una storia da leggere, da interpretare.

Osserviamo innanzitutto come le losanghe di colore, così intenso, trasmettono una forte sensazione di diversità della persona (o del concetto) a cui si riferiscono rispetto al mondo che li circonda. C’è chi trova un legame fra questo atteggiamento e la stessa biografia di Rothko, sentitosi tanto alieno in Lituania da dover scappare negli Stati Uniti, per trovarsi anche lì a fronteggiare un chiaro antisemitismo, perfino nella Yale degli anni ’20. Certo l’alienazione è il tipico male della società moderna, inteso a livello individuale, ma questa sensazione, a livello di gruppo, l’abbiamo sentita noi sulla nostra pelle prima di tanti altri, e Rothko comunque la sentiva con tale intensità da finire suicida nel 1970.

Osserviamo poi che le losanghe di colore non vengono mai disegnate in modo netto con confini ben definiti. Il messaggio che trasmettono non è di un universo ben ordinato e diviso fra concetti (direi persone) diverse e distinte fra loro; al contrario, esiste sempre un confine labile in cui il colore della losanga si mischia con quello dello sfondo senza perdere la propria identità. Rothko pone in risalto tutte queste differenze cromatiche, di modo che le losanghe e ciò che rappresentano si trovano a interagire fra loro quasi fossero contrapposte. L’opera è frutto quindi del confronto fra persone (o concetti) diversi che non si snaturano in questo loro dialogo; nasce cioè mettendo assieme personalità (o pensieri) diversi, non appiattendoli in una uniformità improduttiva di facciata. Si tratta evidentemente di un’impostazione molto più legata al procedere talmudico che alla cultura classica europea, in cui la diversa e ben motivata opinione è un bene prezioso che arricchisce l’analisi. E a dare man forte in questa interpretazione talmudizzante dell’opera di Rothko si può citare addirittura un convegno alla Yeshiva University, in cui Rav Broveder sosteneva di vedere nei suoi quadri una profonda “neshama” ebraica. Certo Rothko non è l’unico nel 20esimo secolo a insistere sulle differenze invece che sulle somiglianze, ma fu certo uno di quelli che vi insistettero di più e che fu un caposcuola in questo. E se tanti hanno seguito le sue orme, forse possiamo prendere per buona, senza darsi troppa importanza, la sua frase “Art is assimilating Judaism”.

Già pubblicato sul Bollettino della Comunità Ebraica di Milano.