ronald brooks kitaj |
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Ronald
Brooks Kitaj e l’Arte della Memoria Sebbene
l’Hirsh Horn Museum di Washington, D.C., avesse organizzato una
retrospettiva del pittore R.B. Kitaj nel 1981, egli non ricevette una
grande attenzione negli Stati Uniti fino a che una sua mostra antologica
non approdò al Los Angeles County Museum dalla Tate Gallery di
Londra nel 1995. Il fatto che R. B.Kitaj, pittore nato a Cleveland (nel
1932) ma vissuto dal 1957 in Inghilterra, sia stato così poco celebrato
nel suo Paese d’origine dimostra quanto provinciale fosse la scena
artistica americana. La retrospettiva dimostrò chiaramente che il pittore poteva annoverarsi fra
i giganti del suo tempo. Grazie alla combinazione di una esaltante abilità
artigianale - nel disegno, nel ritratto e nella composizione - con un
intelletto insaziabile e un profondo interesse storico, Kitaj ha
potuto accumulare una tale energia emotiva uguagliata solo da pochi altri
artisti degli ultimi anni del 20° secolo. Molta della pittura del dopoguerra si è interrogata non soltanto su cosa sia l’Arte ma anche su quale sia lo scopo dell’Arte. Kitaj, comunque, non ha perso molto tempo dietro tali domande categoriche e solipsistiche dal momento che sapeva bene quale fosse lo scopo principale dell’Arte: renderci consapevoli della realtà storica ed incatenarci al “corpo” del mondo. La sua opera collega il presente al passato attraverso una sbalorditiva collezione di riferimenti: ad altri pittori (come Motherwell, Van Gogh, Giorgione, Michelangelo, Cezanne, Goya, Bacon e Degas, tra gli altri); alla letteratura e alla filosofia (Kafka, il mistico del XIII secolo Ramon Lull, Erasmo, Nietzsche); ma anche agli eventi più rilevanti (l’Olocausto, l’assassinio di John Kennedy, la nascita del Fascismo); ed infine ai paesaggi (da Londra alle rive del lago Erie, alla Catalogna, al porto greco del Pireo). Queste non sono delle banali connessioni, create in favore di un vuoto tradizionalismo o per servire pregiudizi conservatori quanto piuttosto elementi per farci comprendere chi siamo “qui ed ora” sia come individui che come membri di un più grande insieme politico. In
uno dei testi illustrativi che accompagnavano molti dei 115 pezzi della
mostra (testi che si tirarono addosso l’ira di non pochi critici
britannici che sembravano credere che per un artista discutere dei propri
sforzi creativi fosse l’equivalente di un sacrilegio), Kitaj scriveva:
“Forse è un concetto originale considerare l’arte di qualcuno come
qualcosa che non soltanto mette a posto l’inerzia della disperazione,
concetto questo piuttosto comune, ma che anche la costringe in una
finzione di amore immortale.” Qui Kitaj si riferisce al soggetto del
dipinto “The Sculptor” che ritrae un uomo che ha iniziato, in
conseguenza della morte della moglie, “una scultura di lei a grandezza
maggiore del reale al fine di ricordare, se non proprio rivivere, il loro
matrimonio.” Ma
questo particolare “amore immortale” dello scultore è anche
emblematico dell’amore di Kitaj per il mondo. Le sue fictions
su
tela e su carta emergono da una passione insaziabile per la corporalità,
per la pelle e le ossa, per le
facce, per il contatto del corpo con il corpo. Quella di Kitaj è
un’arte eminentemente tattile. Alle volte, come nel pastello “Marynka
Pregnant II" del 1981, marcava tanto il segno da fargli trapassare
quasi la carta. Altre volte, il suo tocco si faceva piuma leggera: nello
stesso disegno i più semplici ghirigori divengono venature che rendono
traslucida la pelle dei seni gonfi della modella. Come
il poeta Ezra Pound, l’”antisemita preferito” del pittore colpito
dai pallidi volti di una stazione della Metro, anche Kitaj è catturato
dalla assoluta totale fisicità del mondo. Le sue opere sono l’immagine
riflessa dell’orrenda percezione (e di orrore genitrici) che il mondo è
fatto di carne. Orrenda perché è nella carne, piuttosto che nel sonno
della ragione di Goya, che Kitaj trova i suoi mostri. Per lui, un ebreo
arrivato tardi alla comprensione del significato della sua “ebraicità”,
l’Olocausto rappresentava l’evento più importante della storia
europea del secolo. E, rispetto a questa eredità di violenza, Kitaj
asseriva che l’Olocausto, così come molte altre tragedie che hanno
attraversato la Storia, è stato messo in atto non da nazioni o eserciti
quanto da individui che hanno la responsabilità delle proprie
azioni. Kitaj
riteneva che le ragioni di costoro avessero molto spesso una carica
sessuale crudele. Una delle opere più commoventi della mostra, "Self-Portrait as a Woman" - Autoritratto come donna, del 1984 - ritrae, da dietro e di tre quarti, una donna nuda con il volto di Kitaj. Il testo illustrativo rivela che la donna è l'austriaca Hedwig Bacher che durante la seconda guerra mondiale andò a letto con un ebreo. Scoperta dai nazisti, le furono strappati i vestiti di dosso e venne costretta a marciare per i sobborghi di Vienna con indosso soltanto un cartello. Per sostituire il volto della Bacher con il proprio, Kitaj si mise letteralmente al suo posto rendendo evidente che l’atto di empatia in qualche misura comporta l’assunzione della fisicità di un altro. E quindi, dal momento che un dipinto suscita in noi una risposta empatica verso i personaggi in esso contenuti, questo significa che il dipinto diviene una profonda, intellettuale forma di relazione. Kitaj
è indiscutibilmente moderno nei modi di stendere il colore: in alcune
immagini lo rende così fluido da risultare poco più di un acquarello, in
altre occasioni invece lo addensa sullo sfondo con espressionistico
fervore. E poi la sua modernità è chiaramente proclamata dai
“prestiti” degli altri
artisti (Pound e T.S. Eliot furono tra le sue prime grandi influenze e
molti dipinti del Kitaj studente del Royal College of Art in London
includono elementi di collage come una sorta di versione visuale dei pastiches verbali di Eliot). C’è da dire poi che inevitabilmente
Kitaj ci riporta ai Vecchi Maestri per la scelta dei soggetti e per la
monumentalità delle composizioni che, come le grandiose storiche pitture
di Gericault piuttosto che di Poussin, fanno della tela un palcoscenico
illusorio. Le
persone di Kitaj sono quasi sempre ritratte nel momento di congiuntura di
un dramma - mentre rubano un bacio, durante un’esecuzione, nel mezzo di
un omicidio o di una morte, di una danza, di una lite - ed averle colte in flagrante, per così dire, ci serve per definire le loro vite
‘altre’ fuori della cornice del quadro. Anche quando appaiono da soli,
i personaggi di Kitaj non sono mai davvero soli. Come qualunque habitué
di caffè, come quel boulevardier
e flaneur
che egli tanto frequentemente cita e ritrae, il saggista Walter
Benjamin, Kitaj dice che infine non esiste un dentro e un fuori, né
pubblico o privato ma solo un indissolubile continuum.
In tal senso i dipinti di Kitaj esigono una valutazione finale: ricordarci
che tutte le nostre azioni sono scritte nel libro della vita perché siano
lette da occhi che non siano i nostri. Kitaj
era consapevole del fatto che un ebreo che dipinge figure umane ha
oltrepassato un confine vietato, ha violato la regola contro la
rappresentazione di idoli. Ha osato anche contemplare Dio dipinto, una
trasgressione della Legge ebraica, ma non di quella cristiana e così,
come incoraggiamento in questa pratica, si interessò a William Blake e ad
altri vari pittori italiani. Forse fu per una sorta di compensazione alla
propria sfida che Kitaj si concentrò per tanto tempo sulla Cabbalah, lo
studio mistico delle scritture ebraiche sorto in Spagna nel 1300. Il
cabalista utilizza l’alfabeto ebraico come un obiettivo attraverso cui
intravedere il nome di Dio, un mezzo per squarciare il velo delle cose
sacre. Kitaj era particolarmente interessato a una variante del cabalismo,
sviluppata dal mistico spagnolo Ramon Lull, che aveva come scopo definire
il mondo per categorie e con ciò comprendere l’universo intero. In
questa luce, la maniera alquanto compulsiva di attingere alla letteratura e
alla storia dell’arte per immagini ed all'ispirazione acquista ancora più
significato: non soltanto si proclama parte della tradizione di Pound e
Eliot, egli si dedica a una sorta di ricerca mistica del significato delle
cose in un secolo che è
sembrato a volte essere molto più al servizio delle forze della morte e
dell’annichilimento che a quelle della vita e della creazione. Il
pittore Francis Bacon, vicino e vecchio amico di Kitaj, rispecchiava
fortemente, nella carne delle sue ritorte, sudice e scarnificate figure,
la tendenza del secolo alla violenza gratuita. Al contrario, Kitaj si
sforzava di rifrangere i suoi tempi. Al pari del viaggiatore con lo
sguardo fisso oltre il finestrino del treno dell’incompiuto, quasi
monocromatico “The Jew etc.” del 1976, anche noi tutti siamo degli
esuli, cacciati in un incerto pellegrinaggio all’interno del quale
esprimiamo il nostro personale “incompiuto”. Contro questa diaspora e
contro l’inesorabile evento dell’Olocauso, Kitaj colloca le nostre
“affinità elettive”, le amicizie e le famiglie che ci siamo costruiti
esattamente al centro della perdita e dell’orrore. In un mondo in cui
non sarà mantenuto un centro, Kitaj chiede aiuto a quanti, di
fronte alla violenza - divenuta ormai il costante refrain del mondo -
continuano a sostenere la vita nei propri scritti, nei dipinti, nella
propria fede e nelle proprie convinzioni. Intravedere nei dipinti
di Kitaj gli omaggi e i simboli, fantasmi di quelli che vennero
prima, significa
vedere forse l'unica bellezza concessaci nel nostro triste
percorso predestinato attraverso paesaggi alieni. |
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KITAJ |
The
Jew, Etc.
-1976-79 olio
e carboncino su tela |
“The Jew, Etc. è il primo quadro in cui appare il personaggio immaginario di Joe Singer. E’ la metafora di Kitaj dei sopravvissuti alla Shoah. L’evento storico è tradotto in un problema contemporaneo. Le esperienze traumatiche vengono trasferite nel presente. Il quadro dell’Ebreo in uno scompartimento ferroviario rende visibile la restrizione fisica e mentale della Diaspora. La costrizione dello scompartimento passa alla persona introversa del quadro. L’apparecchio acustico accentua l’isolamento. Essere in movimento, in questo caso viaggiare in treno, diviene nel sistema segnico di Kitaj un simbolo dello stato di perpetuo movimento in cui sono gli Ebrei. Il quadro dell’Ebreo errante che viene trasportato da un luogo all’altro. L’unico luogo sicuro verso cui fuggire è il mondo dei pensieri”. | |
E’
da tanto che
ho deciso di essere ebreo...
(Ritengo
che questo sia più importante della mia arte. SCHONBERG) “Ho
visto gente trasalire davanti a questo titolo; gente dell’arte
sofisticata, che crede sia meglio non usare la parola “Ebreo”. Kafka,
a mio parere il più grande artista ebreo, non ha mai neanche una volta
pronunciato quella parola nelle sue opere. Quindi, ho pensato che dovrei
farlo io. Questa parola malata che molti ebrei riconosceranno e
comprenderanno in modi diversi, mi tocca talmente che ho dato al mio Ebreo
un nome segreto: Joe Singer. Ora non è più segreto. In
questo quadro io faccio di Joe, il mio emblematico ebreo, il soggetto
incompiuto di un estetico intrappolamento e fuga, di un infinito maledetto
Galut-Passage all’interno del quale egli manifesta il suo proprio,
personale senso di ‘incompiuto’, di indeterminatezza. Tutti i pittori
hanno familiarità con il caso fortuito o con qualche specie di
rivelazione e con i fallimenti che il destino mette loro davanti nei
giorni di pittura. Allo stesso modo ho voluto esporre Joe, qui
rappresentato, ad una specie di fato dipinto non dissimile dal caso
imprevedibile che provoca la ‘dispersione’ di qualcuno nel mondo di tutti i giorni. Ad esempio, tra non molto potrei dare un nome
ai compagni di viaggio di Joe, quelli che non potete vedere finché non li
dipingo; anche se non c’è molto spazio. (Infatti avevo cominciato a
popolare questo scompartimento sul mio diario.) Uno dei compiti di Joe
riguarda la tradizione del nostro esilio, che influenza questo quadro,
secondo la quale dei messaggeri vengono addestrati per prendere il posto
dei libri allo scopo di conservare la freschezza dell’insegnamento, non
compromessa dal tempo o dal dogma. Joe è il messaggero-invenzione della
mia personale dispersione (Galut)
su cui ogni giorno imparo di più. La descrizione del suo pellegrinaggio
d’espiazione, presiede a tutto ciò che pertiene al senso che io do a
quella mutevole condizione d’esilio e alle sue incerte abitudini ....,
come in queste belle righe scritte dal cattolico Pé sugli ebrei: “Essere
ovunque: il grande vizio di questa razza, la grande virtù nascosta,
la grande vocazione di questo popolo.”. R.B. KIYAJ -
dalla prefazione di R.B. Kitaj per “R.B.Kitaj”,
di Marco Liningstone,
Thames and Hudson, 1992 |
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Il
Diasporico Quando
Kitaj pubblicò nel 1989 il suo Primo
manifesto diasporico, molto del pensiero nascosto dietro le sue opere
degli ultimi quindici anni, fu chiaro. Si trattava della più elaborata
formulazione del suo antico problema: come creare una pittura che fosse
l’equivalente di Kafka, un’Arte che
non fosse tanto Jewish quanto piuttosto emblematica della
condizione contemporanea di esule. “Il mio caso è fondato su un cliché
che può anche essere una lezione d’arte introspettiva. Il che significa
che la spaventosa condizione degli Ebrei testimonia della condizione del
nostro più vasto mondo”. In
altre parole, l’artista moderno deve essere identificato con l’Ebreo,
visto come alienato outsider, come un esule senza radici. (Le
‘citazioni’ di Kitaj includono anche Picasso e Beckmann come
‘Diasporici’ onorari). Quando
chiesi a Kitaj: “Un Sensuale e un Diasporico sono fondamentalmente lo
stesso animale?”, lui replicò: “Sì, loro sono dentro di me ed in
questa pittura che si trova da qualche parte nel genere
dell’autoritratto. Io sono l’Ebreo ‘carnale’, una figura demoniaca
all’interno del più lurido antisemitismo così come tanto tempo fa fu
per alcuni padri della chiesa..’ di Timothy Hyman |
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